Comunicazione e comunità

Riparte Livù e si fa settimanale: un bel segnale di vita in più per una comunità che – come tante – soffre di mille difficoltà, ma che – diversamente da altre – ha in sé, appena sotto la pelle, straordinarie risorse umane e materiali, in larga parte inespresse.

Ma serve ancora la comunicazione su carta stampata, al tempo di Internet e dei social network? La mia idea è che serve ancora di più, come l’ancora alla nave. La comunicazione scritta è materiale e solida, al contrario di quella elettronica, meravigliosamente veloce ma sempre sospesa al filo dell’insussistenza, della virtualità, del subito detto e poi subito cancellato, o disperso. Le parole volano, dicevano gli antichi, e anche i post sono nell’aria (nel cloud, nella nuvola). Le cose scritte su carta possono restare per secoli. E restano come manifestazione di responsabilità per chi le scrive, come occasione di riflessione e di critica per chi le legge, come opportunità di crescita comune attraverso lo scambio, la circolazione delle idee, la comunicazione.

 

Ma qual è la qualità della comunicazione, nell’era della comunicazione? Troppo spesso l’urlo, l’invettiva, l’insulto, la conclusione indiscutibile posta paradossalmente come premessa della discussione, stanno prendendo gradualmente il sopravvento. Dalla tragica propaganda dei proclami dell’ISIS ai più innocui talk-show nostrani, agli attacchi anonimi e di massa sui blog contro il cattivo di turno, è tutto un combattimento di galli che cercano di uccidere, realmente o simbolicamente, “il nemico”. Lo strumento e l’arma letale di questo tipo di comunicazione, quando non è l’insulto, è il mostrare la propria incontenibile indignazione – proposta come garanzia e certificazione di verità – verso ciò che il nemico fa o dice. Sì, perché l’aggettivo, in qualche modo inscindibile, che accompagna l’indignazione è “sacrosanta”: ogni indignazione, per essere tale, deve mostrarsi sacrosanta, cioè vera e indiscutibile. Mostrarsi indignati significa mettersi subito dalla parte giusta del discorso, quella della verità. In realtà, l’indignazione fasulla ostacola la formazione di un discorso critico e sensato, logico e dimostrabile, su qualsiasi tema (dalla politica ai diritti, dalla salute all’ambiente, dall’economia alle libertà), e spinge verso un nuovo analfabetismo, in cui la rabbia e l’ignoranza si rivestono d’indignazione e di false certezze.

É facile, però, riconoscere l’indignazione davvero sacrosanta, e rispettarla e comprenderla: non solo nasce (come quella fasulla) da un problema reale, ma subito si trasforma in uno sforzo personale costruttivo, in un fare qualcosa che cerca di creare una risposta, una alternativa, una realtà diversa da quella che indigna. L’indignato fasullo fa volare le parole e subito torna sul suo divano, o al bancone del bar; l’indignato autentico cerca confronti, alleanze, appoggi per contrastare ciò che lo indigna, e non urla, né insulta. Si fa testimone umile e fermo della necessità di superare il problema che genera l’indignazione.

Ecco perché è importante, pur nel suo piccolo e orgoglioso raggio d’azione, l’esperienza di Livù, l’esperienza della “parola sulla carta”, l’esperienza dell’animazione del luogo in cui viviamo; non sotto l’insegna dell’ostilità ma del dialogo e della proposta ragionevole, che critica e si lascia criticare. Bentornato, Livù!

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