L’insulto e la purezza inesistente

Il dizionario online Treccani così definisce l’insulto: «Grave offesa ai sentimenti e alla dignità, all’onore di una persona (per estensione, anche a istituzioni, a cose astratte), arrecata con parole ingiuriose, con atti di spregio volgare (come per es. lo sputo, un gesto sconcio, ecc.) o anche con un contegno intenzionalmente offensivo e umiliante». Gli aggettivi che accompagnano l’insulto, per quel dizionario, sono di solito: grave, vile, villano, volgare, crudele, atroce, sanguinoso. Tutti abbiamo subìto l’esperienza dell’essere stato insultato, e tutti abbiamo almeno qualche volta insultato; ma il punto su cui vorrei riflettere con voi è che l’insulto è sempre di più uscito dai confini delle relazioni private per diventare linguaggio quotidiano delle relazioni pubbliche, quelle che riguardano i rapporti tra i soggetti della vita politica e i rapporti tra le persone e le istituzioni.


L’insulto, la grave offesa come prassi del discorso pubblico, è disastroso a prescindere dalla gravità delle critiche che si vogliono fare, anche nel caso in cui chi insulta dovesse aver ragione nel merito. L’insulto non solo colpisce e ferisce chi lo riceve, lacerando la sua dignità di persona, causando dolore e rancore, o altri insulti di rimando. L’insulto chiude, tronca, blocca il discorso, impedendone ogni possibile evoluzione; mettendo al centro la persona colpita, distoglie l’attenzione da ciò che è l’oggetto della critica – spesso perché la critica è inconsistente o fasulla, ed è ben più facile insultare, anziché dimostrare o convincere. L’insulto degrada chi lo fa, perché testimonia la sua stupida pretesa di essere migliore dell’insultato, anzi di essere puro di fronte al mondo, insieme a chi che la pensa esattamente come lui. I danni dell’insulto come prassi sull’insultatore stesso non sono lievi: egli vive nell’illusione di essere superiore e in realtà è condannato da se stesso ad alzare sempre di più il livello dell’insulto, sino ad apparire gonfio come il rospo della favola di Fedro, che voleva diventare bue, delirante e inaffidabile, anche se in qualche caso divertente.
Nell’intervista al Corriere del 5 marzo scorso, Papa Francesco ha ricordato che ogni quindici giorni va dal suo confessore, definendosi un peccatore. Ora la domanda è: se il Papa si definisce come uno che sbaglia – lui che potrebbe essere ritenuto puro per professione, diciamo così, perché Papa, e per com’è, quella persona bella che stiamo conoscendo – se lui si definisce così, tutti noi altri che siamo?
In realtà Bergoglio ci ha solo ricordato che la purezza degli esseri umani non esiste, poiché siamo costantemente esposti ai nostri limiti, alle nostre contraddizioni, alle nostre ambivalenze, alle invidie. Siamo da sempre fatti così, anche se non commettiamo reati, e solo se lo sappiamo e lo accettiamo possiamo riconoscere le cose da cambiare o da combattere, in noi o nel mondo, senza inquinare con l’insulto l’ambiente in cui viviamo, e noi stessi.

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