L'inquietudine e il pettegolezzo

L’inquietudine e il pettegolezzo

L’inquietudine è il sentimento che ci accompagna dal momento stesso in cui capiamo di esistere e di dipendere dagli altri: dai genitori prima, dagli amici e dal partner dopo e, a seguire, dai colleghi di lavoro o dai capi. La paura di non essere all’altezza, sbagliare, essere respinti e restare soli ci spinge in ogni momento a “prendere le misure” agli altri e a noi stessi. E così siamo impegnati in un’incessante opera di giudizio dei vizi (tanti) e delle virtù (poche) delle persone intorno alle quali giriamo.  Per una di quelle persone che ne salviamo, cento ne facciamo cadere sotto la scure del sospetto, del giudizio negativo, del “sentito dire” dolcemente calunnioso.  (Ipocritamente accompagniamo il tutto con quella parolina che esiste solo nella nostra lingua: il “mah…”, che rappresenta la mano nascosta dopo il lancio del sasso).

 

Perché tanta severità verso i nostri simili? Possibile che su oltre sette miliardi di abitanti della terra si salvano solo un pugno di persone tra cui – immancabilmente – proprio noi stessi?

Abbiamo tutti bisogno di criticare perché così costruiamo la nostra diversità (“l’altro è …, io no), cioè la nostra particolare identità e così costruiamo l’unione, l’alleanza, con chi condivide le nostre critiche (l’altro è …, noi no) – come sanno bene le coppie quando spettegolano su altre coppie. Sin qui niente di male. “Evviva il pettegolezzo!”, che ci fa sentire diversi e migliori degli altri, potremmo concludere, a patto però di non crederci davvero. Gli unici abilitati a dirci se siamo “migliori” sono, infatti, fatalmente, proprio e solo gli altri (quelli che noi tendiamo a criticare).

I problemi nascono invece quando troppo grande è l’insicurezza su se stessi, l’oscuro sentimento dei propri limiti e dei propri difetti e il conseguente senso d’inferiorità. Quando questi sentimenti sono troppo forti, e premono dentro, allora la critica diventa acida, implacabile, distruttiva, perché solo abbassando gli altri si trova lo spazio per non sentirsi soffocare. A quel punto, non si salva più nessuno e tutti hanno difetti mostruosi.  Questo accade a chi è stato troppo severamente criticato da bambino, soffrendo tremendamente per questo, e crescendo non ha potuto trovare altre compensazioni. Da adulto sarà allora portato a identificarsi con chi l’ha tormentato (come se ne prendesse il posto), e diventerà egli stesso un giudice inflessibile e sprezzante, continuando però a soffrire. Di solitudine, ora, come scontando una pena per un reato, la calunnia, nel momento stesso in cui lo commette.

Effettua il login per commentare
  • Nessun commento trovato

Questo sito utilizza cookie di terze parti.

Cliccando su Accetta autorizzi l'uso dei cookie Per saperne di piu'

Approvo