Uccidersi?

La crisi incalza, e tante persone non trovano o perdono il posto di lavoro. Sempre più spesso sentiamo di persone che si suicidano perché “schiacciate dalla crisi” o, come si dice oggi, “per ragioni economiche”. Meglio soffermarsi un attimo a riflettere, per non alimentare idee sbagliate, che non ci aiutano a capire e a essere.

Un primo problema riguarda l’informazione sui fatti tragici che riguardano l’intimità delle persone e delle famiglie, che tende a essere frettolosa e sommaria: arriva la notizia e in pochi minuti si deve avere una spiegazione da far circolare, senza aver prima saputo e capito abbastanza. Ma quando quell’informazione fasulla parte, viene subito scambiata da chi la riceve come una verità certa. Più tardi ci accorgeremo che non è così, e nel caso dei suicidi non è mai così, non esiste mai una verità immediatamente visibile e comprensibile. Se le difficoltà vere della vita (la povertà, i lutti, i fallimenti e le disgrazie) fossero in sé ragione valida e sufficiente per suicidarsi, dovrebbero farlo, ogni giorno, quattro abitanti della Terra su cinque.

Sappiamo tutti che non è così, proprio perché le ragioni del suicidio sono altre e più profonde, e riguardano il funzionamento personale di quell’individuo, il modo in cui ha potuto costruire la sua personalità e stabilire i suoi rapporti con gli altri. Sono ragioni profonde, spesso non del tutto consapevoli al suicida stesso. Per questi motivi è meglio diffidare di informazioni approssimate e superficiali sulle ragioni di un suicidio. É meglio accettarne il mistero, almeno provvisoriamente, e avere invece subito pietà per le principali vittime del suicidio: le persone che volevano bene al suicida, o che di lui/lei avevano bisogno.

E questo è il secondo punto. Il suicidio è un atto con il quale tutti vengono dichiarati o colpevoli a non-importanti, non-esistenti. Come se il suicida non avesse potuto imparare nella sua vita a immedesimarsi abbastanza negli altri: chiuso nel suo dolore, nella sua disperazione e nella sua rabbia, non vede il dolore che infligge agli altri, che egli condanna col suo gesto a una specie di ergastolo emotivo. A volte il futuro suicida fantastica di colpire (di uccidere, simbolicamente) col suo gesto, l’istituzione (l’autorità) o la persona (un marito, una moglie o un genitore) “colpevole”. É meglio che l’aspirante suicida consideri prima che l’istituzione, l’autorità, pur essendo il rappresentante simbolico della figura paterna, non può provare dolore, essendo impersonale; e le persone in carne e ossa che eventualmente volesse colpire perché sentite nemiche, intuiranno di essere state il bersaglio e si difenderanno: facendosene rapidamente una ragione, spesso dicendo “era malato/a di depressione” (anche se la depressione c’entra poco col suicidio) e rimuovendo il suicida dalla propria memoria. Le persone davvero ferite dal suo gesto saranno, quindi, solo coloro che avevano per lui/lei buoni sentimenti e, ancora più profondamente, se purtroppo ci sono, i figli e i nipoti – compresi quelli non ancora nati. Tutto questo forse basta per definire il suicidio di chi ha figli o genitori un atto tanto triste quanto privo di ogni grandezza.

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