L’ingratitudine e la gentilezza

Mi capita spesso di discutere con altri genitori della mortificazione che deriva dal sentirsi attaccati da figli che pure amano, e per i quali sentono di aver fatto e di fare molto. Altrettanto spesso mi capita di incontrare ragazzi e giovani adulti che si sentono non compresi e rispettati da genitori dai quali spesso non riescono nemmeno a staccarsi. Accuse forti e reciproche – d’ingratitudine da una parte e d’incomprensione dall’altra – che fanno star male e aprono divari che a volte sembrano incolmabili. Hanno ragione tutti.

«Ingrato come un figlio» ho letto una volta in un romanzo che mi ha fatto riflettere sulla naturalezza dell’ingratitudine filiale, almeno sino a quando il figlio non cessa di essere psicologicamente tale, cioè sino all’età (psicologica) adulta, quella in cui può autonomamente valutare lo scambio avuto col genitore e decidere se essergli grato. Sino ad allora, noi genitori dovremmo ricordare che la ricerca del consenso e della gratitudine da parte di chi ha un “obbligo contrattuale” (crescere e educare figli) nel fare ciò che ha scelto di fare (mettere al mondo dei figli) è impossibile e infondata, e confonde ruoli e responsabilità. Non si può chiedere gratitudine per qualcosa che non si è chiesto (nascere, in questo caso) e mai nessuno l’ha fatto: per questo l’ingratitudine è naturale.

L’ingratitudine, d’altra parte, è un sentimento universale ed epidemico. Basti pensare a come consideriamo scontato, dovuto o meritato ciò che abbiamo ricevuto: la vita, il cibo, qualche piccolo o grande aiuto materiale, qualche gentilezza e qualche gesto affettuoso. Invece, persino la nostra stessa capacità di tenerci in piedi e di procurarci quel che ci serve (studiando, lavorando, combattendo) è qualcosa che qualcuno (magari involontariamente) ci ha insegnato a fare. E qui il discorso vira verso i dolori degli adulti. Posto che i nostri figli sono più o meno ingrati come noi siamo stati da bambini, ragazzi, giovani con i nostri genitori, se non siamo contenti dei loro risultati dobbiamo chiederci se abbiamo sbagliato qualcosa, di cui possiamo correggere gli effetti. Forse abbiamo preteso e pretendiamo troppo, forse non accettiamo abbastanza la naturale diversità di chi è nato da noi, forse abbiamo troppa paura che nostro figlio si possa far male e lo soffochiamo. Forse non gli abbiamo mostrato abbastanza la nostra gratitudine verso i tanti da cui abbiamo preso qualcosa, o verso chi è stato gentile con noi.

La capacità di sentire e mostrare gratitudine è un segno di maturità e per questo è difficile trovarla tra gli “immaturi”, cioè tra chi non ha l’età. Anagrafica, o mentale.

(Livù, gennaio 2013)

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