La scomparsa della conversazione
Un bravo scrittore americano, Jonathan Franzen, ha commentato su Repubblica dell’11 ottobre un libro di un’importante studiosa, Sherry Turkle, che indaga da molti anni il rapporto tra noi umani e le tecnologie attraverso le quali si comunica di più oggi, i social come Facebook e Twitter. Il libro, non ancora tradotto in Italia, analizza le diverse forme di conversazione e lancia un altro allarme sui rischi dello schiacciamento di capacità essenziali per le relazioni umane: l’empatia (la capacità di riconoscere i sentimenti dell’altro e accoglierli) e l’introspezione (la capacità di comprendere i propri sentimenti e i propri pensieri, ascoltandoli in solitudine). Sento già lo sbuffare degli appassionati dei social, di fronte a quella che può sembrare una lagna retrograda di chi non apprezza la modernità. Non è così. Personalmente amo la tecnologia e penso che i problemi, quando ci sono, stiano sempre nella misura (il modo, la quantità) con cui disponiamo di noi stessi, degli altri, degli oggetti. Voglio solo rilanciare delle idee che mi sembrano interessanti e che coincidono con quel che ho capito, e ho già scritto, da psicologo. La conversazione è il luogo reale nel quale noi conosciamo l’altro. Ciò che ci dice chi è l’altro – come davvero sta, cosa verosimilmente pensa dentro di sé, e chi sono io per lui – non sono solo le sue parole ma, e molto di più, la direzione del suo sguardo, l’espressione del suo viso, la rigidità o la morbidezza della sua postura, i suoi silenzi e i suoi sorrisi, la rabbia che sta trattenendo o l’affetto che gli sta illuminando gli occhi. Ma nella conversazione faccia a faccia noi conosciamo noi stessi, perché «Tutti assomigliamo all’immagine che gli altri hanno di noi» (J. L. Borges). Se non conosciamo quell’immagine, non potremo sapere mai bene chi siamo davvero, in quel momento della nostra vita.