Segare il ramo su cui si è seduti

È il 27 luglio, mentre scrivo, e Taranto è bloccata dagli operai dell’ILVA. Penso e spero che quando mi leggerete, la minaccia della disoccupazione sarà stata già sventata. Stiamo vivendo la “cronaca di una morte annunciata”, che non è solo la morte delle persone causata da chi, nel tempo, ha gestito l’impianto ritardando gli interventi di sicurezza necessari, allo scopo di lasciare intatti i profitti. È la morte di una città, di un territorio, devastato nella sua bellezza, nelle sue potenzialità, e nella sua stessa possibilità di essere abitato. Troppo tardi abbiamo compreso che era stata un’assurdità piazzare un impianto siderurgico (più un cementificio, più una raffineria) nella periferia della città, incollato alle case. E l’abbiamo compreso con la certezza dei danni da inquinamento, prima intuiti o sperimentati sulla propria pelle (anche personalmente: ci ho lavorato per tre anni), poi freddamente certificati. Abbiamo capito troppo lentamente, non solo per l’avidità di chi ha voluto lucrare su quei terreni, e di chi è stato indifferente alla condizione degli operai, ma anche per l’ignoranza e la debolezza in cui eravamo tutti immersi. Ricordo, negli anni sessanta, la gioia degli emigranti che ritornavano a casa dalla Germania o dal Nord Italia, felice di poter finalmente lavorare nella propria terra. Ricordo l’orgoglio di avere una fabbrica immensa vicina (“l’acciaio tra gli ulivi”). Ricordo la “ricchezza” dei metal-mezzadri (col doppio lavoro, in fabbrica e in campagna) che finalmente consentiva un tenore di vita più alto (il cibo migliore, gli elettrodomestici), e che finanziò le case in proprietà (e un mare di abusivismo…). Nonostante le centinaia di morti sul lavoro, nonostante le polveri e i rumori e i gas venefici.

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Il dolore assoluto

C’è una cosa che tutti, anche quelli che tra noi sembrano duri e cinici, sappiamo bene: non c’è peggior dolore della perdita di un figlio, e tanto più è piccolo tanto più è acuto il dolore. Qualcuno si è anche esercitato, attraverso una ponderosa ricerca, a stilare una graduatoria dei dolori più forti. Forse non ce n’era bisogno, ma anche lì è stato confermato il dato: è quella la perdita peggiore. Quella che non trova parole di consolazione. Quella che – al solo pensiero – fa sudare i preti che devono fare l’orazione funebre cercando l’impossibile: mettere insieme la morte di un ragazzo con qualche disegno divino. Quella perdita che fa tremare nell’afasia l’amico che deve avvicinarsi al genitore che ha subìto l’evento.

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Il semplice e il complesso, il competente e l’ignorante

Tutto ciò che è semplice è al tempo stesso maledettamente complicato, e viceversa. Non c’è cosa semplice che non contenga dentro di sé una moltitudine di significati e di possibilità. Non c’è cosa complessa il cui significato non sia possibile ridurre a una parola. Vale per le figure geometriche: quanta semplicità e quanta complessità coesistono nel cerchio? Vale per l’arte: vogliamo parlare della pennellata che ha reso eterno il sorriso della Gioconda? Vale per le scelte della vita: accettare o rifiutare una prospettiva sentimentale o di lavoro, ad esempio. Vale per lo sport di squadra, per l’economia, per la psicologia, per la medicina, per la politica, cose delle quali da un lato possiamo essere ben poco esperti e dall’altro possiamo, in certi casi, saperla più lunga di tanti che si dichiarano competenti. Forse semplicemente perché siamo stati più attenti, più equilibrati, più ragionevoli e dubbiosi di un cattivo “specialista”; o forse perché ogni opinione su un fatto complesso contiene qualche elemento di verità.

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La doppia identità. Emigrare è un diritto

Il nome che porto è di uno zio paterno che – non avendo figli – chiese ai miei nonni di poter tenere con sé mio padre (di “crescerlo”, come si diceva). Lo zio Giuseppe, per sfuggire alla miseria conseguente alla prima guerra mondiale, emigrò negli Stati Uniti, a New York, dove fece lo spazzino per tre anni, e con quei soldi costruì la sua casa. Racconto questo per far comprendere che so – anche per altre esperienze di altre persone – cosa voglia dire emigrare, avere la libertà dolorosa di allontanarsi dalla propria terra e cercare rifugio altrove, per sfuggire a condizioni economiche o politiche impossibili da sostenere. Con sole quattro parole – “Emigrare è un diritto” – papa Benedetto XVI ha espresso il concetto basilare attraverso il quale dovremmo guardare alla realtà degli stranieri che incontriamo sulla nostra strada. Un diritto del quale sino a trent’anni fa abbiamo fruito noi italiani, del sud e del nord, andando in ogni dove, quasi sempre in condizioni difficili, nelle baracche in Svizzera o in Germania o a Torino, nelle miniere del Belgio, o nelle Americhe. Durante la dittatura fascista, migliaia d’italiani perseguitati dal regime trovarono asilo politico altrove, soprattutto in Francia– come accadde a uno dei nostri più amati Presidenti della Repubblica, Sandro Pertini. Un diritto del quale potremmo aver bisogno di nuovo, in futuro.

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