Ti voglio bene

Quant’è difficile dirsi «Ti voglio bene» tra genitori e figli, appena i figli diventano più grandi! Non meno del dirselo tra partner, certo, non appena passa l’onda dell’innamoramento. Quest’ultimo caso, però, appare più consueto e prevedibile, perché siamo tra pari: non appena uno si chiude l’altro si ammutolisce a sua volta, e comincia lo stanco gioco delle reciproche recriminazioni: «Non sei più affettuoso/a con me». Ma questo si sa. Il vero mistero è il silenzio così frequente nello scambio tra genitori e figli grandi intorno a sentimenti d’amore fortissimi ma taciuti. Pensavo sino a poco tempo che ciò fosse un retaggio del passato, appartenente a generazioni precedenti, quelle in cui ci si vantava della capacità del genitore di NON mostrare l’affetto. «Bacio mio figlio solo quando dorme», dicevano i padri di un tempo, persino con un certo orgoglio, per sottolineare il sacrifico che stavano facendo pur di non “rammollire”, “viziare”, il piccolo. Eravamo, allora, dentro una sciocca e assurda idea autoritaria che negava la necessità (e la bellezza) dei bisogni di sicurezza e calore dei piccoli, e diventava una vera e propria teoria educativa, di cui essere fieri. Nel lavoro di formazione dei giovani psicoterapeuti ho dovuto cambiare idea sul punto: la difficoltà a comunicare gli affetti è ben presente anche tra le giovani generazioni, più acculturate e spigliate, inserite in relazioni familiari molto meno autoritarie e sostanzialmente funzionanti.

 

Perché, allora? Il legame con i nostri genitori è sempre, in tutti i casi, fortissimo, persino quando i genitori sono malfunzionanti, e ci appaiono distanti o crudeli. In questo caso il legame è fatto di depressione o di rabbia, ma resta intenso, anche se è difficile riconoscere che la rabbia è figlia del bisogno di essere amati e del terrore di non esserlo stati abbastanza. Il mistero si complica ulteriormente quando l’incapacità di dirsi «Ti voglio bene» è tra genitori e figli tra cui non ci sono stati particolari sciagure, ma quei normali problemi di cui sono anche fatti i rapporti: incomprensioni, delusioni, gelosie, invidie…

Forse la ragione profonda di quella difficoltà è nella fragilità che appartiene a tutti gli esseri umani nel loro essere stati cuccioli d’uomo, inermi e inetti, cioè privi di difese e incapaci di fare da soli, totalmente nelle mani di chi regola con i suoi comportamenti la possibilità stessa di sopravvivere, fisicamente e psicologicamente. Abbiamo attraversato tutti un tunnel (i nostri primi anni di vita), del quale non possiamo avere alcuna memoria, in cui a volte si spegneva la luce, e nasceva la paura dell’abbandono o, appena più grandicelli, la paura di non essere sufficientemente bravi e meritevoli di affetto, e più avanti ancora, da adolescenti, il terrore di deludere mamma e papà.

É il deposito, stratificato dentro di noi, di quelle piccole o grandi paure che abbiamo sperimentato tutti da cuccioli, che ci rende timorosi di dichiarare il nostro bisogno di dire e di sentirsi dire «Ti voglio bene». I residui archeologici di quelle paure restano in noi per tutta la vita e bloccano in gola quelle tre parole, per il timore ancora vivo di non sentirsi accolti o, peggio, per il terrore che la nostra offerta di amore possa incontrare il rifiuto. Non accade quasi mai così: ho visto tante volte come il coraggio di dire all’altro (genitore o figlio che sia) quello che dall’altro vorremmo sentirci dire, apra a un incontro nuovo, in cui la dolcezza conquistata si somma al rimprovero a se stessi di non averlo fatto prima.

Se vi sembra troppo imbarazzante fare qualcosa che dovrebbe essere facilissima (e invece non lo è per nulla), allora vi suggerisco un trucco: scrivetele, quelle tre parole magiche, spiegandole per bene. Sarà la letterina di Natale più bella e utile che avrete mai scritto.

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