La doppia identità. Emigrare è un diritto

Il nome che porto è di uno zio paterno che – non avendo figli – chiese ai miei nonni di poter tenere con sé mio padre (di “crescerlo”, come si diceva). Lo zio Giuseppe, per sfuggire alla miseria conseguente alla prima guerra mondiale, emigrò negli Stati Uniti, a New York, dove fece lo spazzino per tre anni, e con quei soldi costruì la sua casa. Racconto questo per far comprendere che so – anche per altre esperienze di altre persone – cosa voglia dire emigrare, avere la libertà dolorosa di allontanarsi dalla propria terra e cercare rifugio altrove, per sfuggire a condizioni economiche o politiche impossibili da sostenere. Con sole quattro parole – “Emigrare è un diritto” – papa Benedetto XVI ha espresso il concetto basilare attraverso il quale dovremmo guardare alla realtà degli stranieri che incontriamo sulla nostra strada. Un diritto del quale sino a trent’anni fa abbiamo fruito noi italiani, del sud e del nord, andando in ogni dove, quasi sempre in condizioni difficili, nelle baracche in Svizzera o in Germania o a Torino, nelle miniere del Belgio, o nelle Americhe. Durante la dittatura fascista, migliaia d’italiani perseguitati dal regime trovarono asilo politico altrove, soprattutto in Francia– come accadde a uno dei nostri più amati Presidenti della Repubblica, Sandro Pertini. Un diritto del quale potremmo aver bisogno di nuovo, in futuro.

L’emigrare, ovviamente, deve essere regolato in modo da renderlo compatibile con la realtà del lavoro, delle risorse disponibili, delle leggi e dei costumi europei, ma considerando il lasciare la propria terra e mettersi in salvo altrove, prima di tutto un diritto della persona, pari a quello della legittima difesa. I problemi da risolvere sono enormi in ogni caso, ma inquadrarli in una prospettiva di umanità ci aiuta a fare di volta in volta le scelte migliori.

Se ci mettiamo ora dal punto di vista di chi vive in terra straniera, non è difficile immaginare le difficoltà che si devono affrontare: la lingua, la povertà, la cultura diversa, il sospetto di essere visti come ospiti indesiderati, i pregiudizi più stupidi. Qualche anno fa ho visto a Torino delle giovani nigeriane portare addosso un adesivo sul quale era scritto “Non sono una prostituta”. Oppure che siano delinquenti in quanto stranieri. Oppure che portano i pidocchi. Ci sono delinquenti, prostitute e persone con pidocchi tra loro. Tra noi invece no? Non possiamo regolarci semplicemente su ciò che fanno e non su ciò che sono?

Facciamo un piccolo gioco delle parti: mettiamoci nei panni di una persona del nostro sesso e della nostra età, e immaginiamo di essere in un luogo del quale conosciamo poco o affatto la lingua, in un paesaggio e in un clima e in abitudini diverse da quelle che abbiamo vissuto sin lì. Immaginiamo di avere un bisogno urgente di salute, di soldi per comprare da mangiare, o di lavoro per mantenermi, o di documenti da produrre per non essere rimandato indietro. Basterebbe averne uno di questi problemi per sentirsi addosso un’angoscia profonda. Nella realtà spesso questi problemi stanno insieme nella stessa persona.

So che alcuni di voi stanno pensando in questo momento: ”Ecco il solito ragionamento pietista e buonista, che poi ci fa ritrovare i guai in casa nostra”. A loro dico che per fortuna di tutti, nel tempo e grazie alla forza delle idee, il nostro mondo si è faticosamente liberato dalla vergogna della schiavitù (e prima tutti pensavano che era giusto comprare e vendere persone), dall’analfabetismo di massa (e prima gli istruiti – religiosi in testa – pensavano che fosse un grave pericolo per la società insegnare a leggere e a scrivere), dalla abominevole stupidità del razzismo (e sino a settant’anni fa si pubblicava in Italia un giornale del regime fascista che si intitolava “La difesa della razza”), dalla trascuratezza dei bambini (che un tempo erano semplicemente “non persone”, e perciò senza diritti).

Tutto questo per dire che pensare a un mondo meno ingiusto, più ragionevole e umano di quello che abbiamo sotto gli occhi, non è irrealistico, ma al contrario significa essere nel cammino della civiltà. E’ fuori dalla realtà e dalla civiltà chi rifiuta di “porsi il problema”, cioè di ragionare insieme agli altri per migliorare se stesso e il contesto in cui vive, scegliendo le rassicuranti e pigre scorciatoie del pregiudizio, e l’ovattato torpore di digestioni laboriose.

Ecco perché è necessario e utile guardare alle persone che arrivano da noi e ci chiedono aiuto come esseri umani da considerare e rispettare, e chiederci se e cosa possiamo per loro. Trattandoli con lo stesso rigore che chiediamo a noi stessi e ai nostri connazionali. Impedendogli di delinquere a loro e a tutti. Impedendogli di sfruttare donne e bambini come spesso accade sotto per loro pregiudizi e limiti. Ma sentendo anche tutta la loro fatica di essere qui. Quella fatica che hanno fatto tanti italiani come noi sino a pochissimo tempo fa.

 

(Livù, febbraio 2011)

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