Il desiderio

“É anima? E (perciò) desidera”. Così recita un vecchio adagio popolare, proponendo giustamente un’identificazione tra l’essere un’anima, avere uno spirito, l’essere vivi insomma, e il desiderare. Il desiderio apre al futuro, e quando si affaccia nella nostra mente annuncia il bisogno o la possibilità di un godimento. Quando lo sentiamo, abbiamo la percezione del nostro essere esistenti, e dotati di una volontà di vivere e provare piacere. Questo circuito resta così vitale, però, solo quando la persona ha conquistato la consapevolezza che non si può avere tutto, mai, neanche se si è un potente della terra. Il desiderio si scontra da subito con l’impossibilità di essere soddisfatto sempre, come possiamo capire guardando un bambino piccolo che piange o si ribella perché desidera a ogni costo qualcosa che l’adulto ritiene invece impossibile concedergli. E, infatti, definiamo “infantili” o “immature” le persone che pretendono di soddisfare ogni desiderio, e chiedono troppo; e definiamo “ingordo” o addirittura “malato” chi, pur avendo tanto, non è capace di godere di quel che ha e desidera sempre altro, e poi ancora altro, rifiutando limiti, impedimenti e leggi (sia del buon senso, sia dei codici). 

 

Il godimento senza limite diventa mortale (come spiega Massimo Recalcati nel libro Il complesso di Telemaco – Feltrinelli, 2013) perché è consumo senza vero desiderio, e condanna la persona all’inappagante nuova ricerca di ciò che si è appena consumato, per consumarlo ancora una volta. Come nella dipendenza patologica dalle sostanze, dal cibo, dal gioco, dal potere, dal sesso: condizioni nelle quali è particolarmente chiaro come il godimento illimitato non è libertà e felicità ma schiavitù.

Più in piccolo, ma non diversamente, questo è chiaro anche nel modo in cui consumiamo gli oggetti che acquistiamo, cercandone (o desiderandone) sempre di nuovi. Spinti anche da potenti pubblicità che ci confondono su ciò che davvero è un nostro desiderio e ciò che è invece un desiderio costruito da altri dentro di noi. Nel circuito consumistico, il godimento si scinde dal desiderio che nasce da un bisogno reale della persona, e dal rispetto e dalla cura di ciò che si desidera. Diventando così cieco consumo (distruzione) di ciò che si è riusciti a possedere.

Non si può avere tutto, qualunque cosa significhi “tutto”, e il desiderio è vita solo è dentro stretti e riposanti confini, quelli della realtà dei nostri bisogni e delle nostre condizioni. In quei confini possiamo guardarlo, il desiderio, con tenerezza (a volte allegra, a volte compassionevole) verso noi stessi e – quando l’oggetto del nostro desiderio è una persona – possiamo considerarla e trattarla con tutta la cura di cui siamo capaci. Perché anche l’altro “É anima, e desidera”, come me, di non essere consumato. Ma rispettato, valorizzato e – solo così – goduto.

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